3. Social network. Un mondo da abitare
Terzo incontro a cura della dott.ssa Angela Silvestri, in data 9 giugno 2014:
Negli ultimi 15 anni siamo passati da una comunicazione dove i siti la facevano da padrone, ad una comunicazione molto relazionale, conversazionale dove, prima i blog e negli ultimi 10 anni i social network hanno riscosso successo perché hanno riorganizzato il modello di comunicazione dando una cittadinanza a dei bisogni di relazione che avevano le persone permettendo di continuare la relazione anche online. E hanno dato spazio a una delle istanze che in rete maggiormente è viva: quella della condivisione della conoscenza, permettendo di creare gruppi tra persone spazialmente lontane aggregate su interessi particolari.
Ci sono anche esperienze e applicazioni didattiche numerosissime, milioni nel mondo, anche se mancano teorie di utilizzo, Però c’è la necessità che l’insegnante conosca Facebook…
FB è stato uno dei primi SN che si è mosso in questa direzione della condivisione; oggi è il SN più utilizzato, con 7.800.000.000 di messaggi scambiati nel 2012, e 1.200.000.000 di utenti attivi. 70 lingue. 50.000.000 di tweet al giorno (dati 2012)
I SN hanno introdotto termini nuovi che sono già nei dizionari: twittare, taggare.
FB e TW hanno approcci diversi. In FB abbiamo gli amici e gli amici di amici, spesso mi collego con persone con cui ho una relazione reale. Pubblicare una notizia su FB è come pubblicarla sulla bacheca della parrocchia, della scuola, la pubblico in una comunità legata a me in qualche maniera.
In TW ci si segue. Pubblicare una notizia su TW è come pubblicarla sullo spazio del Comune, non ci sono legami. Tw è più simile ad un aggregatore di informazioni, l’utenza è più qualificata. Sì adolescenti, ma anche giuristi, politici, ecc.
La logica di FB è creare una comunità. Vado su TW se voglio entrare in un flusso di notizie, è luogo di pubbliche relazioni.
Profilo per i minori. In FB c’è il limite di età di 13 anni. FB ha un account per minore (tra 13 e 18 anni: possono chiedersi l’amicizia solo tra minori o da amici di amici. Non possono dare l’amicizia ad adulti. Non prevede la condivisione pubblica e la geolocalizzazione, FB nel profilo del minore la esclude, ma basta cliccare per attivarla. Quando compie 18 anni FB cambia le impostazioni e manda l’avviso. Però i gli adolescenti si danno 20, 22 anni e tutto si vanifica.
Come porsi di fronte a queste nuove tecnologie? La Chiesa ce l’ha insegnato, già dal 1995: abitando il continente digitale. Il sito Vatican.va che ha 800.000 pagine, ha inizio il 31.12.1995. La Chiesa Cattolica ha coinvolto un mare di informazioni sulla rete, sull’uso della rete, sull’educazione all’uso della rete, più di qualsiasi altra organizzazione nella società. La comunicazione non è un optional nella Chiesa ma è centrale.
La Chiesa non deve avere paura del cambiamento. Non aprirsi a questo cambiamento potrebbe essere un errore; la tecnologia porta però a rivedere certi paradigmi che devono adattarsi a questo nuovo mondo: l’etica, la filosofia… Non avere paura di vivere questi luoghi con positività e con un atteggiamento di apertura alla relazione e di ascolto. Essere molto aperti al nuovo, stando attenti ad avere intelligenza nei confronti di questo nuovo mondo… Tenere questi mondi collegati, non separarli; non sono due mondi ma uno solo.
Su Twitter l’account @Pontifex c’è in otto lingue, ha 12 milioni di seguaci, 60 milioni di retweet.
Gli ultimi 3 pontefici hanno capito l’assoluta importanza di essere presenti in rete; hanno capito che l’uomo di oggi vive anche lì e quindi è anche lì che va trovato, accolto e anche lì gli vanno date le risposte che sta cercando e che cerca fondamentalmente da sempre.
Pensiamo alla grandezza del magistero di Benedetto: quando parla di nuovo continente, nuovi linguaggi, nuove culture fa pensare alla scoperta dell’America: se c’è un nuovo continente, una nuova cultura, eccetera ci sono nuove missioni, un nuovo mandato, un nuovo dovere di evangelizzare; c’è una forza di magistero spettacolare che non so se tutti lo abbiamo capito. Non si può portare un messaggio dove non siamo presenti.
Papa Francesco esorta a coltivare la cultura dell’incontro. Richiede che siamo disposti non soltanto a dare ma anche a ricevere dagli altri, sentirsi prossimi, è l’invito a vivere questo nuovo ambiente generato dai media come uno spazio di grandi opportunità, quindi non tanto i timori, i pericoli, certamente i rischi non mancano, ma uno sguardo estremamente positivo e fiducioso.
Una cultura dell’incontro che il Papa ha voluto contrassegnare con l’immagine evangelica del buon samaritano con cui ci suggerisce come camminare sulle strade dei social network, significhi anche prestare una particolare attenzione a chi su queste strade si trova non solo a produrre realtà positive, ma anche resta ferito. Il samaritano, che vuole essere la realtà della Chiesa, degli educatori, di tutte le persone di buona volontà, ha anche il compito di farsi carico delle fatiche, delle difficoltà, di prendersi cura appunto.
Il nuovo samaritano è quello che non cura le ferite fisiche, ma quelle spirituali, che si fa prossimo secondo la logica della rete. Ci sono tantissime persone che passano il loro tempo in FB per colmare la loro solitudine, per relazionarsi cercando di colmare una carenza di senso. Il modello di conversazione piacevole non esclude lo spazio per porre questioni serie. Se abbiamo esperienze positive offline e le vogliamo condividere con altri online, è positivo.
I ragazzi e anche gli adulti, nascondendosi magari anche dietro sterili polemiche nei confronti della Chiesa, celano il bisogno di risposte e queste risposte gliele possiamo offrire ogni giorno abitando la rete con coerenza e credibilità.
C’è un invito forte a vivere una chiesa in uscita, che non ha paura di affrontare i nuovi ambienti. Il Papa ripete: “meglio una Chiesa che ha delle difficoltà, magari anche delle fatiche, ma che esce, piuttosto che una chiesa chiusa in se stessa, che si ammala per essere troppo autoreferenziale”.
Evitare gli estremi: da una parte la demonizzazione di questa realtà e dall’altra la sua eccessiva enfatizzazione. I social network, la rete, costituiscono una opportunità importante dal punto di vista della quantità delle relazioni possibili e potenziali, nel senso che consentono relazioni che prima non c’erano: dal punto di vista quantitativo può essere occasione di nuova ricchezza. Ma un’attenzione particolare deve essere messa su queste opportunità anche per la qualità di queste relazioni; il cambiamento può essere una opportunità se si è in grado di gestirlo nella direzione di utilizzarne le potenzialità qualitativamente importanti che porta con sé; solo in questo modo il rapporto fra i due mondi dell’offline e dell’online possono interagire proficuamente; da questo punto di vista il mondo giovanile è soggetto portatore privilegiato di questa sfida: il rapporto con questa dimensione è in prima battuta rapporto con i giovani.
Altra osservazione: la crisi economica di questi anni ha avuto profonde ripercussioni anche sulla vita collettiva: la peggiore è che ha prodotto una disgregazione del tessuto sociale; in una situazione di grande frammentazione collettiva che spinge ognuno di noi a rinchiuderci all’interno delle proprie sicurezze, dei propri punti di riferimento stabili, occorre, ognuno con i propri mezzi, la chiesa con i suoi, il mondo laico con i suoi, riaprirsi al rapporto con gli altri. Questa è la sfida più importante, prima ancora che non quella squisitamente economica. Credo che nel mondo in cui viviamo prima ancora della crisi economica c’è una crisi del tessuto sociale in cui siamo inseriti.
Il volto sociale di Facebook. L’esperienza di socialità nei social network.
Facebook è un luogo antropologico che consente identità, relazione, riconoscimento. L’unità di misura di questa possibilità di stare insieme è costituita dai profili, che sono in qualche modo una produzione dinamica di identità in relazione. L’identità è l’esito della performance, che ha una componente di presentazione di sé, una di gestione e controllo dell’impressione che vogliamo produrre negli altri, e ha sempre una dimensione di co-costruzione: la nostra identità e l’esito di ciò che noi diciamo insieme ad altri, che altri dicono di noi (pensiamo a quando veniamo taggati in una foto, ai commenti che compaiono sulla nostra bacheca, all’esibizione delle liste dei nostri contatti che dicono chi siamo perché siamo amici di qualcuno); l’identità, il profilo è davvero sociale.
Sherry Turkle,una delle principali studiose americane dell'universo giovanile, nel testo La vita sullo schermo, nota che Internet può essere considerato da molti un laboratorio sociale per sperimentare l’esperienza della costruzione e della ricostruzione del sé, dove alcuni vivono l’identità come un insieme di ruoli in grado di fondersi e mescolarsi. Si pone il problema dell’identità dei partecipanti delle community. Non si può mai sapere «davvero» chi sta dall’altra parte. Nel 2011 è stata scoperta la «bufala» di Amina, la blogger gay siriana perseguitata a Damasco: si trattava invece un barbuto attivista politico americano residente in Scozia. Ma dietro ad ogni avatar c’è tuttavia una persona in carne ed ossa: anche a questa persona possiamo offrire qualcosa di positivo.
Aspetti problematici per i giovani e i giovanissimi:
L’identità oggi soprattutto nelle fasce più giovani viene sempre più frequentemente declinandosi nel senso della estroflessione. La costruzione identitaria, la costruzione di rapporti, molte delle pratiche sociali che noi siamo abituati a pensare come interne, come appartenenti ad una sfera privata sono invece giocate nel “fuori”. Pensiamo all’importanza che i ragazzi attribuiscono al cambio frequente dell’immagine. La foto del profilo svolge due funzioni: una di rappresentazione di sé, una strategica. Un ragazzino attraverso il cambio comunica i suoi stati d’animo, gli umori.
Pare che un minore su quattro, specie se non lega con i coetanei, tenda ad evitare il confronto diretto e preferisca raccontarsi online.
- Qualche mese fa i media davano la notizia di una ragazzina che si è tolta la vita, perché su ASK aveva ricevuto minacce e insulti. Ask è un social network lettone, giovanissimo, ha tre anni e circa 8 milioni di visitatori al giorno. Il messaggio è: chiedi e rispondi. La finalità è fare domande massimo di 300 caratteri e ottenere risposte. Si può accedere tramite Facebook o Twitter. Generalmente è anonima. È il motivo del successo. È popolato prevalentemente da adolescenti, che hanno un linguaggio aggressivo. Non c’è la possibilità di impostare la privacy. Si può bloccare una persona che fa domande aggressive ma non è così evidente come parlare, aprire il discorso ask con i ragazzi e capire la motivazione dello scambiarsi domande e risposte, su YouTube si trovano le video risposte, il tono è inquietante perché sono veramente aggressivi ci sono delle video risposte su ask che rasentano l’isteria: parolacce, terreno fertile per un cyber bullismo.
Avvenire del 22/05/2010 riportava l’articolo “Ragazzi nel baratro”: si riferiva a tragici fatti di ragazzi che si sono uccisi, o tentare di farlo, qualcuno gridando la propria disperazione su Facebook e rimanendo inascoltato; uno per non aver sopportato la vergogna di essere stato messo in quella piazza, filmato dai compagni mentre sbeffeggiava la professoressa.
Segnaliche non sono stati captati da nessuno: né dai genitori, ignari del profondo disagio psicologico dei ragazzi, e neppure dagli amici di scuola.
Il 12/03/2011, all’aeroporto di Francoforte, Arid Uka, un ragazzo musulmano d’origine albanese che vive in Germania compie una strage terroristica contro un bus dell’aviazione americana. Il ragazzo confessa di aver agito dopo aver visto su YouTube un video che testimonia lo stupro di alcuni soldati statunitensi su una ragazza in Iraq. Dopo quattro giorni il magazine Spiegel tv scopre che il filmato è una sequenza del film «Redacted» di Brian de Palma. Ma la sequenza choc è stata inserita sul web senza alcun riferimento al film, dando vita a «segmenti di racconto decontestualizzati».
Il 2 aprile 2014, in Messico, una sedicenne messicana è stata uccisa da una coetanea con 65 coltellate per aver pubblicato foto in cui entrambe comparivano nude sulla sua pagina di Facebook, scatenando una serie di scherzi e commenti pesanti sul social network.
Ricordiamo tutti i fatti di Roma e Genova dove ragazzine mettevano le loro foto che le ritraevano nude o quasi, per fare soldi.
Ormai è chiaro che Internet e i social network sono spazi concreti dove avvengono e si dicono cose vere. Non si possono più considerare come due campi separati la vita quotidiana e la realtà della Rete, perché ha un peso reale. Ecco perché anche lì è urgente educare alla responsabilità.
Sherry Turkle, a conclusione di 15 anni di studi sull'interazione fra alta tecnologia ed esseri umani, dopo aver esaminato i casi di decine di giovani, trae conclusioni che fanno discutere: da un lato robot sempre più sofisticati, e dall’altra gli adolescenti che «preferiscono inviare sms anziché parlare» con il risultato di un «progressivo distacco dalla realtà e alienazione dall’umanità». Per la studiosa le Reti sociali, aumenterebbero il senso di isolamento dei giovani che, attraverso i social network, si sono ritrovati con problematiche accresciute, fino ad arrivare talora al suicidio. Un suo slogan è “Tanti amici ma sempre soli”, che illustra nel suo libro «Alone together» (Insieme ma soli),
Una delle cose che lasciano più sorpresi è che non solo adolescenti, ma anche adulti, affidano al social network riflessioni con straordinaria leggerezza, osservazioni o contenuti.
Quali forme tende ad assumere questa socialità a cavallo tra on-line e off line?
1) C’è una struttura della socialità on-line, che mostra come ci sia corrispondenza tra la struttura che la società offline sta assumendo e la struttura che assume la socialità on-line. La rete FB riproduce gruppi già esistenti offline. Le comunità in rete ricalcano quella che è la comunità di vita.
2) Sono reti io-centrate,
3) questa struttura tende a valorizzare i legami deboli rispetto ai legami forti, che possono anche non essere rappresentati o tendono a scomparire, come nel caso tipico degli adolescenti che non vogliono i genitori in rete; quelli deboli, basati sull’affinità, sul gusto, sull’adiacenza, sono più rilevanti perché sono più funzionali.
4) questa struttura accentua la relazione orizzontale tra pari, rispetto a quella gerarchica: mette in discussione per esempio il principio di autorità.
Rischi di questa ridefinizione: il possibile collasso dei contesti: quello pubblico-privato, ma anche i diversi contesti della vita privata: la sfera degli amici rispetto a quella dei colleghi, la sfera dei colleghi rispetto alla sfera dei superiori, la sfera degli amici rispetto a quella dei ragazzi di cui siamo educatori. Non sono più in grado di gestire, se non con un lavoro impegnativo, la distinzione tra le diverse sfere, c’è una permeabilità estrema tra queste diverse sfere che si contaminano fra loro.
Ci sono comportamenti facilitati dalle affordances tecnologiche (affordance= la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo).
Le tecnologie ci invitano o abilitano a fare alcune cose piuttosto o più facilmente che altre.
1) la visibilità sociale, reciproca, implica sia il controllo reciproco, sia la possibilità di una curiosità reciproca (l’abbiamo sempre fatto, si chiama pettegolezzo, adesso lo facciamo in un modo nuovo, è una forma di controllo sociale),
2) Oppure: la mancanza di visibilità si traduce in un’assenza: se non sono visibile non ci sono, non esisto, se non performo scompaio nel gorgo della rete.
3) Proprio perché questa visibilità è reciproca, apre a una dimensione di riflessività: io guardo che cosa fanno gli altri, gli altri guardano che cosa fanno a me, io guardo come gli altri reagiscono a quello che io ho fatto, in quella gestione dell’impressione che devo produrre negli altri, devo continuamente confrontarmi con la mia immagine, col progetto della mia immagine, con: come gli altri leggono la mia progettualità, e come reagiscono alla mia azione. È in qualche modo un guardarsi allo specchio continuamente. Questa consapevolezza produce la percezione di rivolgersi a un pubblico a cui bisogna risultare gradito: i miei amici sono il mio pubblico in qualche modo, e io incorporo la logica dell’andare incontro al gradimento degli altri.
4) Alcune affordances potenziano l’omofilia delle reti. Ci sono alcuni dispositivi all’interno di Facebook che lavorano in questa direzione; per esempio il dispositivo del “like”, che mi consente di dire che cosa mi piace, ma non che cosa non mi piace; la possibilità di bloccare i contenuti indesiderati, che quindi non entrano più nella mia bacheca; lo stesso algoritmo di Facebook che torna a ripropormi con maggiore frequenza le pagine che io vedo già con maggiore frequenza: “a chi ha sarà dato a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”, c’è una ricorsività che premia, anche all’interno di Facebook come nei motori di ricerca, alcuni contatti, alcune relazioni piuttosto che altre. Si rischia di perdere la possibilità della casualità dell’incontro con l’altro.
5) una strategia un po’ più prudente: il sé selettivo propone, secondo le regole di buona conversazione, una sorta di autocensura. Ci si autocensura nei contenuti, o perché si sviluppa una sorta di minimo comun denominatore, e si dice quello che si sa non possa dare fastidio a nessuno. L’omofilia preme verso una sorta di conformismo, mi adeguo al tono generale della conversazione e cerco di piacere a tutti e non dispiacere a nessuno: questo produce “like” in modo esponenziale.
Ci sono poi altre strategie che mettiamo in atto poiché c’è una molteplicità di linguaggi comunicativi. Noi passiamo sovente da una strategia all’altra. Però dentro questi tipi ideali c’è ancora uno spazio per una forma di stile personale, cioè per quella forma che rende diverso il profilo dal volto. La relazione tra viso e identità nella nostra cultura è un aspetto molto forte. Nel linguaggio comune diciamo: “Io ci metto la faccia”, mi basta guardarlo in faccia per capire”. Per dire come nella nostra cultura la faccia è molto rappresentativa di quella che è la nostra identità.
Il volto che ci giochiamo dentro poi finisce per essere quello che ciascuno di noi con il suo stile, con il suo modo di stare insieme agli altri, è in grado di produrre. Dai profili, dai post, foto, musiche si può fare il profilo psicologico delle persone, arma potentissima dal punto di vista commerciale, ma dall’altra parte vuol dire che comunque noi stiamo in rete, con quello che facciamo sulla rete noi giochiamo allo scoperto, noi mostriamo la nostra umanità senza infingimenti, e questo può avere una serie di ricadute molto forti e volendo anche molto positive. Dipende da noi.
2. Siamo noi a cambiare i media o sono loro a cambiare noi? Una sfida educativa
Secondo incontro a cura della dott.ssa Angela Silvestri:
La volta scorsa abbiamo messo a fuoco il passaggio tra il vecchio e il nuovo non solo a livello di oggetti tecnologici, ma abbiamo cominciato ad accennare ad alcune trasformazioni avvenute nelle dinamiche sociali, culturali, antropologiche, identitarie.
Ora ci concentriamo sulle modificazioni che i media digitali hanno indotto nelle pratiche sociali, nel nostro modo di vivere e di relazionarci. Un grande autore, George Meyrowitz, nel suo libro “Oltre il senso del luogo”, evidenzia come le nuove tecnologie abbiano annullato in molte circostanze l'esistenza dello spazio fisico cancellando in qualche modo le distanze, lo spazio è spesso percepito come inesistente. Ma come percepiamo la realtà del luogo in cui siamo, se possiamo azzerarla così facilmente? Che cosa è qui? Che cosa è lontano? In che modo si modifica la nostra mappa delle relazioni spaziali se ci risulta più facile parlare con un amico a New York rispetto al signore della porta accanto? La connettività mixata con la portabilità diventa un elemento che impatta sulla globalizzazione, sulle pratiche sociali, ma aggiungiamo: anche sull’educazione. Una volta si poteva prendere un computer, sistemarlo nel salotto di casa ed essere tranquilli che solo da lì si poteva accedere alla rete e che quindi, collocato il computer nella stanza più sociale della casa, i problemi educativi fossero risolti. Era sufficiente escludere qualcuno dalla condivisione di un luogo perché fosse escluso dalla comunicazione. Oggi questa esclusione dalla comunicazione non è più possibile: lo sviluppo di mezzi digitali portabili e sempre connessi supera e va oltre il senso del luogo. Grande opportunità perché la comunicazione arriva fino agli estremi confini della Terra, ma circa il controllo pedagogico c’è un problema. Avevamo individuato il nesso tra rivoluzione digitale e globalizzazione, ricercandolo proprio nella ridefinizione del concetto di spazio pubblico che la rivoluzione digitale comporta; è uno degli effetti di maggior portata della rivoluzione digitale. Un tempo era chiaro dove finisse lo spazio pubblico e dove cominciasse quello privato; oggi questa distinzione è sempre più difficile. La diffusione dei dispositivi mobili come il telefonino, lo smartphone o il tablet contamina fortemente gli spazi. Si portano le conversazioni private dentro lo spazio pubblico di un tram affollatissimo in ore di punta; viceversa il cellulare sempre acceso porta questioni che riguardano il nostro spazio tempo lavorativo dentro i nostri spazi privati ben oltre i limiti che si dovrebbero consentire alla permeabilità di questi spazi. La diffusione dei social network ci fa fare esperienza di ambienti dove il confine tra che è pubblico e ciò che è privato è molto labile. Ciò che è pubblico nel nostro profilo di Facebook risponde soltanto alla capacità che abbiamo di definire le regole di accesso ai contenuti del mio social network: senza quel passaggio ciò che è pubblico è privato e ciò che è privato è pubblico. Avevamo parlato di de-mediazione. Lo spazio pubblico nasce nel ‘700 con i giornali modernamente intesi. Poteva stare nello spazio pubblico chi aveva la capacità riconosciuta dagli altri di fare un uso adulto della ragione, di prendersi tutte le responsabilità per quello che diceva nello spazio pubblico sostenendo il contradditorio con gli altri che, avendone le condizioni, potevano a loro a volta stare nello spazio pubblico. In quel contesto l’accesso allo spazio pubblico era selezionato, non era cosa per tutti! Oggi chiunque può occupare lo spazio pubblico, chiunque può pubblicare. Quando metto un post sul mio blog di fatto lo sto pubblicando! C’è stata una trasformazione profondissima persino nel linguaggio comune del concetto stesso di pubblicare che etimologicamente significa “rendere pubblico” cioè andare ad esprimere un’opinione dentro lo spazio pubblico. Questo è il dispositivo principale che secondo me lega la rivoluzione digitale con la globalizzazione. Alcune osservazioni ci aiuteranno a comprendere meglio questo ambiente e i suoi influssi sulla realtà sociale e culturale: 1) Un aspetto legato al rapporto che si istituisce tra identità e presenza nel social network, ma delle reti sociali ne parleremo nel prossimo incontro. 2) aspetto: è legato alla ridefinizione in chiave quasi antropologica della tecnologia. La tecnologia ripensata come attore sociale. Cosa significa? Significa pensarla come a “qualcuno”: due studiosi dell’Università di Montreal hanno scritto un libro, qualche anno fa, sulle pratiche dei giovani con il cellulare; in un passaggio uno di loro scriveva che se noi siamo a cena in due e ciascuno di noi ha un cellulare acceso di fatto siamo a cena in quattro. È una battuta ma è verissimo! Perché il cellulare è un attore sociale e se anche l’ho acceso silenziato sul tavolo, quando suona vibra, richiama la mia attenzione, è qualcosa che normalmente le macchine non hanno mai fatto, e il cellulare lo fa, richiama la mia attenzione, mi si visualizza il nome, “cosa faccio?”- “rispondo o non rispondo?”, forse anche se sono a cena rispondo! E la riconfigurazione della tecnologia come attore sociale rende ragione di come la tecnologia venga spesso utilizzata anche per surrogare le nostre pratiche sociali: noi affidiamo alla tecnologia molto di quello che ci costa fare. I ragazzini si mettono insieme e si lasciano attraverso un SMS, magari con il linguaggio criptico proprio degli sms; soprattutto in contesto nord americano si è già cominciato a licenziare via SMS; quando noi non siamo in grado di tener fede a un impegno spesso affidiamo questa comunicazione a un SMS, a un tweet, a una mail, perché? Perché ci consentono di non metterci la faccia, ci traggono di imbarazzo, e sono tutte modalità di ridefinizione della pratica sociale e del modo di costruire e mantenere i legami sociali che sono assolutamente nuove, e meriterebbero attenzione. 3) la vita reale e la vita digitale sono in perfetta continuità. Superiamola quella distinzione tra vita reale e vita virtuale, tra mondo reale e mondo virtuale, che non corrisponde alla realtà dei fatti. Oggi i nuovi media, sono una dimensione, una parte integrante delle nostre esistenze. Quello che facciamo in maniera mediata e quello che facciamo in maniera immediata sono in perfetta continuità, non c’è frattura! È un primo aspetto che aiuta a capire bene come le identità si ridefiniscano nel senso di una maggiore complessità. Ai tanti scenari di azione che ci hanno sempre caratterizzati, si aggiunge un altro scenario di azione che è quello del digitale. Secondo la teorizzazione di Lévy questa vita dentro i media non significa abitare in un mondo alternativo a quello fisico dal momento che il concetto di virtuale non si contrappone a reale, per questo la virtualità degli ambienti mediali non dipende da un mondo irreale. La percezione comune di chi vive nel nostro mondo ad alta densità comunicativa è il senso di continuità tra atti concreti e atti in rete. Sarebbe meglio parlare di realtà offline e online, non: reale e virtuale. Non ha più senso mettere in dubbio che il mondo virtuale abbia o meno realtà, piuttosto è importante mettere a fuoco la natura, la qualità, il peso antropologico di questa realtà simbolica e non fisica. Il nostro percorso tocca brevemente il concetto di costruzione simbolica della realtà. I media hanno una funzione anzitutto trasmissiva nel senso che trasmettono dei messaggi, ma così facendo ci permettono di conoscere molti aspetti del mondo in modo mediato dal linguaggio mediale, e danno così luogo all’esperienza mediata della realtà. Noi oggi (ma questo l’uomo lo ha fatto da sempre) conosciamo il mondo attraverso la mediazione: non solo attraverso la mediazione, ma per lo più attraverso la mediazione. Questa esperienza mediata non è un’esperienza irreale, una fantasia immaginaria perché questa conoscenza mediata è propriamente la nostra realtà, che fa i conti con una dimensione che non è fisica ma simbolica, nel senso che è mediata dai sistemi linguistici e dai sistemi comunicativi; si tratta quindi di una costruzione simbolica della realtà. Non significa che la realtà sia più povera, ma anzi che al limite essa è più complessa; non abbiamo a che fare solo con i sensi relativi all’estensione fisica, ma abbiamo a che fare con una realtà costruita simbolicamente, linguisticamente. Forse il discorso è un po’ complesso ma in questo modo si apre un ventaglio di riflessioni interessanti, perché entrando in quest’ottica scopriamo quanti aspetti della nostra vita abbiano una natura linguistica, cioè siano guidati dai segni; non solo atti propriamente mediatici, certo quando guardo la TV o quando telefono, ma anche azioni molto concrete: quando scrivo appunti, quando gesticolo, il modo con cui io mi vesto! L’effetto Francesco ha fatto sbucare molte croci di legno. Questo è un dato linguistico, una consapevolezza che un modo di porsi all’interno della realtà è un modo di dare rappresentazione di sé e della realtà, e ha una componente di costruzione simbolica nella percezione della realtà ecclesiale, sono tutti diventati “pauperisti”. È un effetto Francesco sulle simboliche! Nel vestirsi si usano dei segni quindi si costruisce, si media appunto, simbolicamente qualche cosa. Noi abbiamo sempre a che fare con una realtà densamente composta di simboli e di segni linguistici, e il fatto che siamo di fronte ad una realtà costruita simbolicamente è vecchio quanto l’uomo. In estrema sintesi il processo di mediazione della realtà avviene attraverso una dinamica circolare: in un primo momento è costituito dalla “ripresa” da parte dei media di ciò che la cultura e la società producono; in questa fase la vita degli uomini è oggetto che i media colgono, riprendono, rappresentano, mettono in circolo, condividono; sono contenuti umani perché i media non producono messaggi dal nulla, c’è una costruzione simbolica della realtà che parte comunque da un primario assorbimento di quello che fanno gli uomini, di quello che sono, della loro storia. I media però non sono aspetti inerti ma sono sistemi linguistici, quindi inevitabilmente rimodellano simbolicamente, ricreano questi contenuti e li diffondono nel mondo socio culturale. È importante questa ri-creazione mediale, questa messa in scena linguistica: è la formazione di un universo di senso simbolico linguistico, per cui lo stesso contenuto che è un contenuto assorbito dalla società umana, se viene riprodotto in un videogioco è una cosa, se viene riprodotto in TV è un’altra, in radio un’altra ancora, in un giornale un’altra ancora cioè assume modelli linguistici diversi e ci raggiunge in maniera differente. Ritornando a papa Francesco, provate a pensare all’omelia di Santa Marta: se la vediamo sul sito del CTV vediamo le immagini e ascoltiamo la voce, se lo leggiamo sul giornale è un’altra cosa, se lo ascoltiamo a radio vaticana è un’altra cosa ancora, se lo seguiamo su TV 2000 è un’altra cosa ancora perché alle parole del papa si sovrappongono parole di commento: ci sono modalità di assorbimento e di ri-mediazione linguistico - simbolica molto interessanti. C’è un terzo momento in questa circolarità in questa ri-costruzione linguistica: la rappresentazione mediatica passa attraverso la ripresentazione di modelli standard, di ruoli, di visioni della realtà, di tipologie, di stereotipi, sui quali le persone costruiscono però la propria idea di ruolo sociale, di norma sociale e anche realtà di normalità, quindi le regole della vita civile, i livelli di importanza, di priorità, i valori. Proprio su questa modellizzazione linguistica le persone costruiscono la propria visione del mondo. In questo modo si chiude il ciclo di questo processo: quindi gli uomini parlano delle stesse cose da migliaia di anni: amore, odio, giustizia, infrazione, rispetto, trasgressione, bellezza, potere, bontà. I contenuti del grande discorso sociale sono gli stessi, ma cambiano i modelli perché cambiano i modelli linguistici e simbolici attraverso cui si costruisce questa rappresentazione, perché i media contemporanei sono macchine simboliche così potenti e ricche di risorse da farci parlare appunto di rivoluzione digitale però di fatto è sempre lo stesso: si tratta sempre degli stessi racconti. C’è ancora un aspetto della globalizzazione a livello mondiale che non possiamo ignorare, il digital divide, o divario digitale: è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell'informazione e chi ne è escluso, in modo parziale o totale. I motivi di esclusione comprendono diverse variabili: condizioni economiche, livello d'istruzione, qualità delle infrastrutture, differenze di età o di sesso, appartenenza a diversi gruppi etnici, provenienza geografica. Il divario può essere inteso sia rispetto a un singolo paese sia a livello globale. Il tema del divario digitale è così entrato prepotentemente tra le priorità di organizzazioni internazionali, governi ed aziende multinazionali. Il divario è iniziato tra Stati Uniti e resto del mondo, ma dal 2000 questo gap digitale cessa di essere un problema esclusivamente statunitense per diventare un problema dell'intero pianeta. È preoccupante che a porre il problema in maniera più pressante sono i leader di alcune grandi multinazionali durante un incontro simbolo della propagazione delle tesi della globalizzazione coniugate al libero mercato. Una delle cause ampiamente condivise del divario digitale è di carattere economico; questa impedisce ad ampie fasce della popolazione dei paesi in via di sviluppo di acquisire un'alfabetizzazione informatica, che è causa essa stessa di divario digitale. Il circolo vizioso che si viene a creare porta i paesi poveri ad impoverirsi ulteriormente, dal momento che vengono ulteriormente esclusi dalle nuove forme di produzioni di ricchezza, basate sui beni immateriali dell'informazione. Il problema, intrinseco al nuovo corso del sistema economico mondiale, può essere combattuto attraverso iniziative di vario tipo atte alla divulgazione di infrastrutture e saperi. Sono attualmente attive diverse campagne per il superamento del divario digitale, ma il problema anziché diminuire si accresce. Talora sono i governi stessi dittatoriali di molti paesi a impedire alla popolazione l’accesso alle nuove tecnologie, o a oscurare le possibilità di connessione dove sono già sviluppate, per consolidare i propri interessi di parte. Vorrei cogliere alcune indicazioni dal messaggio di Papa Francesco in occasione della 48^ Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. La comunicazione è una conquista umana più che tecnologica. Certo, la tecnologia ci può facilitare od ostacolare, ma non ci determina, perché il tecnologico agevola la connessione, agevola le distanze, ma (l’esempio della cena è illuminante) la tecnologia di per sé non crea comunione e prossimità, anche se permette la vicinanza, la prossimità. Perché la libertà, l’iniziativa, la disponibilità a entrare nella reciprocità dell’incontro sono condizioni indispensabili perché il tecnologico permetta questo; questo vuol dire che se c’è un primato dell’umano sul tecnologico ogni determinismo è da rifiutare. Il fatto che ci sia una tecnologia non ci rende più prossimi, più socievoli, però non ci rende neppure più soli. La rete non può essere un alibi o un capro espiatorio di responsabilità che sono nostre; il fatto che ci sia il tecnologico non è garanzia di prossimità ma neppure certezza di isolamento. Nella comunicazione sono coinvolte conoscenza, abilità, competenze non strumentali semplicemente ma di tipo sociale; quelle competenze mirate alla cura delle relazioni interpersonali e allo sviluppo di una responsabilità personale nella gestione del proprio ambiente comunicativo, del rispetto, del dialogo, con quelle attenzioni, quelle competenze eminentemente etiche, per cui quando si parla dei media, si parla dell’uomo, facendo appunto riferimento alla libertà, alla responsabilità, alla consapevolezza. Occorre capire la comunicazione in termini di prossimità (frase del Papa): dire che la comunicazione non è prima di tutto trasmissione di contenuti ma piuttosto riduzione di distanze è un cambiamento di prospettiva radicale. Non sono solo le strategie, il marketing, gli effetti speciali, che fanno la comunicazione, ma è superare ciò che divide, far crescere ciò che ci è comune, è farsi reciprocamente dono di sé. Nelle relazioni di persona che molti continuano a difendere ad oltranza, quanto siamo disponibili nel farci dono reciproco? Se noi non siamo disponibili a far questo, se io non sono prossimo, disponibile a questa reciprocità del dono, non è che questo mi garantisca la prossimità. Capire la comunicazione della prossimità vuol dire capirla nel senso che c’è una dinamica che ci mette in gioco, nella libertà di farci reciprocamente dono di noi. Tutto questo ha profonde implicazioni dal punto di vista educativo, formativo, di istruzione. L’approccio media educativo è fondamentale anche come educazione che insegna ad abitare dentro i media: non tanto usarli ma starci dentro. Quando si parla di riduzione delle distanze non basta poter vedere il viso dell’altro, per sentirsi prossimi nel villaggio globale; ma è solo fermandosi, facendosi carico, prendendosi cura, che ci si fa prossimo. Il Papa nel suo discorso fa riferimento appunto alla parabola del Samaritano, lasciarsi interpellare, commuovere, toccare il cuore fino a modificare i propri progetti per abbracciare l’altro che ci chiama, questo significa capire la comunicazione in termini di prossimità; che vuol dire, in altre parole, risvegliare la nostra umanità all’incontro, alla prossimità, alla ospitalità: sono parole di reciprocità. Dove dare e ricevere sono inseparabili; incontrando il volto dell’altro posso riconoscere il mio volto più umano. Si può essere molto vicini ma totalmente disconnessi, si può parlare in un modo e agire in un altro, quindi le nostre vite sono frammentate dalla frammentazione tra vita e parola non dalla frammentazione tra online e offline. Quanti rapporti fisici sono egoistici e non di prossimità, auto-centrati e non di accoglienza! La mediazione simbolica della rete non definisce la densità o la qualità delle relazioni, certo chiama in causa stimolando a maggior responsabilità una libertà e uno stile. Il comunicatore è autorevole quando la parola e la vita sono in sintonia profonda, perché il cuore si è lasciato toccare e trasformare dall’incontro. Qualcuno dice: “come mai Papa Francesco tocca il cuore delle persone?” La parola e la vita sono in sintonia! Quando la parola e la vita sono in sintonia la testimonianza è affascinante; un messaggio che non è mosso da un “dover essere…” ma da una bellezza e da una gioia grandi che non possiamo tenere per noi. Ecco perché essere cristiani è condividere! La testimonianza è parola incarnata, porta calore e bellezza su tutte le strade, anche sulle strade digitali.
Ora ci concentriamo sulle modificazioni che i media digitali hanno indotto nelle pratiche sociali, nel nostro modo di vivere e di relazionarci. Un grande autore, George Meyrowitz, nel suo libro “Oltre il senso del luogo”, evidenzia come le nuove tecnologie abbiano annullato in molte circostanze l'esistenza dello spazio fisico cancellando in qualche modo le distanze, lo spazio è spesso percepito come inesistente. Ma come percepiamo la realtà del luogo in cui siamo, se possiamo azzerarla così facilmente? Che cosa è qui? Che cosa è lontano? In che modo si modifica la nostra mappa delle relazioni spaziali se ci risulta più facile parlare con un amico a New York rispetto al signore della porta accanto? La connettività mixata con la portabilità diventa un elemento che impatta sulla globalizzazione, sulle pratiche sociali, ma aggiungiamo: anche sull’educazione. Una volta si poteva prendere un computer, sistemarlo nel salotto di casa ed essere tranquilli che solo da lì si poteva accedere alla rete e che quindi, collocato il computer nella stanza più sociale della casa, i problemi educativi fossero risolti. Era sufficiente escludere qualcuno dalla condivisione di un luogo perché fosse escluso dalla comunicazione. Oggi questa esclusione dalla comunicazione non è più possibile: lo sviluppo di mezzi digitali portabili e sempre connessi supera e va oltre il senso del luogo. Grande opportunità perché la comunicazione arriva fino agli estremi confini della Terra, ma circa il controllo pedagogico c’è un problema. Avevamo individuato il nesso tra rivoluzione digitale e globalizzazione, ricercandolo proprio nella ridefinizione del concetto di spazio pubblico che la rivoluzione digitale comporta; è uno degli effetti di maggior portata della rivoluzione digitale. Un tempo era chiaro dove finisse lo spazio pubblico e dove cominciasse quello privato; oggi questa distinzione è sempre più difficile. La diffusione dei dispositivi mobili come il telefonino, lo smartphone o il tablet contamina fortemente gli spazi. Si portano le conversazioni private dentro lo spazio pubblico di un tram affollatissimo in ore di punta; viceversa il cellulare sempre acceso porta questioni che riguardano il nostro spazio tempo lavorativo dentro i nostri spazi privati ben oltre i limiti che si dovrebbero consentire alla permeabilità di questi spazi. La diffusione dei social network ci fa fare esperienza di ambienti dove il confine tra che è pubblico e ciò che è privato è molto labile. Ciò che è pubblico nel nostro profilo di Facebook risponde soltanto alla capacità che abbiamo di definire le regole di accesso ai contenuti del mio social network: senza quel passaggio ciò che è pubblico è privato e ciò che è privato è pubblico. Avevamo parlato di de-mediazione. Lo spazio pubblico nasce nel ‘700 con i giornali modernamente intesi. Poteva stare nello spazio pubblico chi aveva la capacità riconosciuta dagli altri di fare un uso adulto della ragione, di prendersi tutte le responsabilità per quello che diceva nello spazio pubblico sostenendo il contradditorio con gli altri che, avendone le condizioni, potevano a loro a volta stare nello spazio pubblico. In quel contesto l’accesso allo spazio pubblico era selezionato, non era cosa per tutti! Oggi chiunque può occupare lo spazio pubblico, chiunque può pubblicare. Quando metto un post sul mio blog di fatto lo sto pubblicando! C’è stata una trasformazione profondissima persino nel linguaggio comune del concetto stesso di pubblicare che etimologicamente significa “rendere pubblico” cioè andare ad esprimere un’opinione dentro lo spazio pubblico. Questo è il dispositivo principale che secondo me lega la rivoluzione digitale con la globalizzazione. Alcune osservazioni ci aiuteranno a comprendere meglio questo ambiente e i suoi influssi sulla realtà sociale e culturale: 1) Un aspetto legato al rapporto che si istituisce tra identità e presenza nel social network, ma delle reti sociali ne parleremo nel prossimo incontro. 2) aspetto: è legato alla ridefinizione in chiave quasi antropologica della tecnologia. La tecnologia ripensata come attore sociale. Cosa significa? Significa pensarla come a “qualcuno”: due studiosi dell’Università di Montreal hanno scritto un libro, qualche anno fa, sulle pratiche dei giovani con il cellulare; in un passaggio uno di loro scriveva che se noi siamo a cena in due e ciascuno di noi ha un cellulare acceso di fatto siamo a cena in quattro. È una battuta ma è verissimo! Perché il cellulare è un attore sociale e se anche l’ho acceso silenziato sul tavolo, quando suona vibra, richiama la mia attenzione, è qualcosa che normalmente le macchine non hanno mai fatto, e il cellulare lo fa, richiama la mia attenzione, mi si visualizza il nome, “cosa faccio?”- “rispondo o non rispondo?”, forse anche se sono a cena rispondo! E la riconfigurazione della tecnologia come attore sociale rende ragione di come la tecnologia venga spesso utilizzata anche per surrogare le nostre pratiche sociali: noi affidiamo alla tecnologia molto di quello che ci costa fare. I ragazzini si mettono insieme e si lasciano attraverso un SMS, magari con il linguaggio criptico proprio degli sms; soprattutto in contesto nord americano si è già cominciato a licenziare via SMS; quando noi non siamo in grado di tener fede a un impegno spesso affidiamo questa comunicazione a un SMS, a un tweet, a una mail, perché? Perché ci consentono di non metterci la faccia, ci traggono di imbarazzo, e sono tutte modalità di ridefinizione della pratica sociale e del modo di costruire e mantenere i legami sociali che sono assolutamente nuove, e meriterebbero attenzione. 3) la vita reale e la vita digitale sono in perfetta continuità. Superiamola quella distinzione tra vita reale e vita virtuale, tra mondo reale e mondo virtuale, che non corrisponde alla realtà dei fatti. Oggi i nuovi media, sono una dimensione, una parte integrante delle nostre esistenze. Quello che facciamo in maniera mediata e quello che facciamo in maniera immediata sono in perfetta continuità, non c’è frattura! È un primo aspetto che aiuta a capire bene come le identità si ridefiniscano nel senso di una maggiore complessità. Ai tanti scenari di azione che ci hanno sempre caratterizzati, si aggiunge un altro scenario di azione che è quello del digitale. Secondo la teorizzazione di Lévy questa vita dentro i media non significa abitare in un mondo alternativo a quello fisico dal momento che il concetto di virtuale non si contrappone a reale, per questo la virtualità degli ambienti mediali non dipende da un mondo irreale. La percezione comune di chi vive nel nostro mondo ad alta densità comunicativa è il senso di continuità tra atti concreti e atti in rete. Sarebbe meglio parlare di realtà offline e online, non: reale e virtuale. Non ha più senso mettere in dubbio che il mondo virtuale abbia o meno realtà, piuttosto è importante mettere a fuoco la natura, la qualità, il peso antropologico di questa realtà simbolica e non fisica. Il nostro percorso tocca brevemente il concetto di costruzione simbolica della realtà. I media hanno una funzione anzitutto trasmissiva nel senso che trasmettono dei messaggi, ma così facendo ci permettono di conoscere molti aspetti del mondo in modo mediato dal linguaggio mediale, e danno così luogo all’esperienza mediata della realtà. Noi oggi (ma questo l’uomo lo ha fatto da sempre) conosciamo il mondo attraverso la mediazione: non solo attraverso la mediazione, ma per lo più attraverso la mediazione. Questa esperienza mediata non è un’esperienza irreale, una fantasia immaginaria perché questa conoscenza mediata è propriamente la nostra realtà, che fa i conti con una dimensione che non è fisica ma simbolica, nel senso che è mediata dai sistemi linguistici e dai sistemi comunicativi; si tratta quindi di una costruzione simbolica della realtà. Non significa che la realtà sia più povera, ma anzi che al limite essa è più complessa; non abbiamo a che fare solo con i sensi relativi all’estensione fisica, ma abbiamo a che fare con una realtà costruita simbolicamente, linguisticamente. Forse il discorso è un po’ complesso ma in questo modo si apre un ventaglio di riflessioni interessanti, perché entrando in quest’ottica scopriamo quanti aspetti della nostra vita abbiano una natura linguistica, cioè siano guidati dai segni; non solo atti propriamente mediatici, certo quando guardo la TV o quando telefono, ma anche azioni molto concrete: quando scrivo appunti, quando gesticolo, il modo con cui io mi vesto! L’effetto Francesco ha fatto sbucare molte croci di legno. Questo è un dato linguistico, una consapevolezza che un modo di porsi all’interno della realtà è un modo di dare rappresentazione di sé e della realtà, e ha una componente di costruzione simbolica nella percezione della realtà ecclesiale, sono tutti diventati “pauperisti”. È un effetto Francesco sulle simboliche! Nel vestirsi si usano dei segni quindi si costruisce, si media appunto, simbolicamente qualche cosa. Noi abbiamo sempre a che fare con una realtà densamente composta di simboli e di segni linguistici, e il fatto che siamo di fronte ad una realtà costruita simbolicamente è vecchio quanto l’uomo. In estrema sintesi il processo di mediazione della realtà avviene attraverso una dinamica circolare: in un primo momento è costituito dalla “ripresa” da parte dei media di ciò che la cultura e la società producono; in questa fase la vita degli uomini è oggetto che i media colgono, riprendono, rappresentano, mettono in circolo, condividono; sono contenuti umani perché i media non producono messaggi dal nulla, c’è una costruzione simbolica della realtà che parte comunque da un primario assorbimento di quello che fanno gli uomini, di quello che sono, della loro storia. I media però non sono aspetti inerti ma sono sistemi linguistici, quindi inevitabilmente rimodellano simbolicamente, ricreano questi contenuti e li diffondono nel mondo socio culturale. È importante questa ri-creazione mediale, questa messa in scena linguistica: è la formazione di un universo di senso simbolico linguistico, per cui lo stesso contenuto che è un contenuto assorbito dalla società umana, se viene riprodotto in un videogioco è una cosa, se viene riprodotto in TV è un’altra, in radio un’altra ancora, in un giornale un’altra ancora cioè assume modelli linguistici diversi e ci raggiunge in maniera differente. Ritornando a papa Francesco, provate a pensare all’omelia di Santa Marta: se la vediamo sul sito del CTV vediamo le immagini e ascoltiamo la voce, se lo leggiamo sul giornale è un’altra cosa, se lo ascoltiamo a radio vaticana è un’altra cosa ancora, se lo seguiamo su TV 2000 è un’altra cosa ancora perché alle parole del papa si sovrappongono parole di commento: ci sono modalità di assorbimento e di ri-mediazione linguistico - simbolica molto interessanti. C’è un terzo momento in questa circolarità in questa ri-costruzione linguistica: la rappresentazione mediatica passa attraverso la ripresentazione di modelli standard, di ruoli, di visioni della realtà, di tipologie, di stereotipi, sui quali le persone costruiscono però la propria idea di ruolo sociale, di norma sociale e anche realtà di normalità, quindi le regole della vita civile, i livelli di importanza, di priorità, i valori. Proprio su questa modellizzazione linguistica le persone costruiscono la propria visione del mondo. In questo modo si chiude il ciclo di questo processo: quindi gli uomini parlano delle stesse cose da migliaia di anni: amore, odio, giustizia, infrazione, rispetto, trasgressione, bellezza, potere, bontà. I contenuti del grande discorso sociale sono gli stessi, ma cambiano i modelli perché cambiano i modelli linguistici e simbolici attraverso cui si costruisce questa rappresentazione, perché i media contemporanei sono macchine simboliche così potenti e ricche di risorse da farci parlare appunto di rivoluzione digitale però di fatto è sempre lo stesso: si tratta sempre degli stessi racconti. C’è ancora un aspetto della globalizzazione a livello mondiale che non possiamo ignorare, il digital divide, o divario digitale: è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell'informazione e chi ne è escluso, in modo parziale o totale. I motivi di esclusione comprendono diverse variabili: condizioni economiche, livello d'istruzione, qualità delle infrastrutture, differenze di età o di sesso, appartenenza a diversi gruppi etnici, provenienza geografica. Il divario può essere inteso sia rispetto a un singolo paese sia a livello globale. Il tema del divario digitale è così entrato prepotentemente tra le priorità di organizzazioni internazionali, governi ed aziende multinazionali. Il divario è iniziato tra Stati Uniti e resto del mondo, ma dal 2000 questo gap digitale cessa di essere un problema esclusivamente statunitense per diventare un problema dell'intero pianeta. È preoccupante che a porre il problema in maniera più pressante sono i leader di alcune grandi multinazionali durante un incontro simbolo della propagazione delle tesi della globalizzazione coniugate al libero mercato. Una delle cause ampiamente condivise del divario digitale è di carattere economico; questa impedisce ad ampie fasce della popolazione dei paesi in via di sviluppo di acquisire un'alfabetizzazione informatica, che è causa essa stessa di divario digitale. Il circolo vizioso che si viene a creare porta i paesi poveri ad impoverirsi ulteriormente, dal momento che vengono ulteriormente esclusi dalle nuove forme di produzioni di ricchezza, basate sui beni immateriali dell'informazione. Il problema, intrinseco al nuovo corso del sistema economico mondiale, può essere combattuto attraverso iniziative di vario tipo atte alla divulgazione di infrastrutture e saperi. Sono attualmente attive diverse campagne per il superamento del divario digitale, ma il problema anziché diminuire si accresce. Talora sono i governi stessi dittatoriali di molti paesi a impedire alla popolazione l’accesso alle nuove tecnologie, o a oscurare le possibilità di connessione dove sono già sviluppate, per consolidare i propri interessi di parte. Vorrei cogliere alcune indicazioni dal messaggio di Papa Francesco in occasione della 48^ Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. La comunicazione è una conquista umana più che tecnologica. Certo, la tecnologia ci può facilitare od ostacolare, ma non ci determina, perché il tecnologico agevola la connessione, agevola le distanze, ma (l’esempio della cena è illuminante) la tecnologia di per sé non crea comunione e prossimità, anche se permette la vicinanza, la prossimità. Perché la libertà, l’iniziativa, la disponibilità a entrare nella reciprocità dell’incontro sono condizioni indispensabili perché il tecnologico permetta questo; questo vuol dire che se c’è un primato dell’umano sul tecnologico ogni determinismo è da rifiutare. Il fatto che ci sia una tecnologia non ci rende più prossimi, più socievoli, però non ci rende neppure più soli. La rete non può essere un alibi o un capro espiatorio di responsabilità che sono nostre; il fatto che ci sia il tecnologico non è garanzia di prossimità ma neppure certezza di isolamento. Nella comunicazione sono coinvolte conoscenza, abilità, competenze non strumentali semplicemente ma di tipo sociale; quelle competenze mirate alla cura delle relazioni interpersonali e allo sviluppo di una responsabilità personale nella gestione del proprio ambiente comunicativo, del rispetto, del dialogo, con quelle attenzioni, quelle competenze eminentemente etiche, per cui quando si parla dei media, si parla dell’uomo, facendo appunto riferimento alla libertà, alla responsabilità, alla consapevolezza. Occorre capire la comunicazione in termini di prossimità (frase del Papa): dire che la comunicazione non è prima di tutto trasmissione di contenuti ma piuttosto riduzione di distanze è un cambiamento di prospettiva radicale. Non sono solo le strategie, il marketing, gli effetti speciali, che fanno la comunicazione, ma è superare ciò che divide, far crescere ciò che ci è comune, è farsi reciprocamente dono di sé. Nelle relazioni di persona che molti continuano a difendere ad oltranza, quanto siamo disponibili nel farci dono reciproco? Se noi non siamo disponibili a far questo, se io non sono prossimo, disponibile a questa reciprocità del dono, non è che questo mi garantisca la prossimità. Capire la comunicazione della prossimità vuol dire capirla nel senso che c’è una dinamica che ci mette in gioco, nella libertà di farci reciprocamente dono di noi. Tutto questo ha profonde implicazioni dal punto di vista educativo, formativo, di istruzione. L’approccio media educativo è fondamentale anche come educazione che insegna ad abitare dentro i media: non tanto usarli ma starci dentro. Quando si parla di riduzione delle distanze non basta poter vedere il viso dell’altro, per sentirsi prossimi nel villaggio globale; ma è solo fermandosi, facendosi carico, prendendosi cura, che ci si fa prossimo. Il Papa nel suo discorso fa riferimento appunto alla parabola del Samaritano, lasciarsi interpellare, commuovere, toccare il cuore fino a modificare i propri progetti per abbracciare l’altro che ci chiama, questo significa capire la comunicazione in termini di prossimità; che vuol dire, in altre parole, risvegliare la nostra umanità all’incontro, alla prossimità, alla ospitalità: sono parole di reciprocità. Dove dare e ricevere sono inseparabili; incontrando il volto dell’altro posso riconoscere il mio volto più umano. Si può essere molto vicini ma totalmente disconnessi, si può parlare in un modo e agire in un altro, quindi le nostre vite sono frammentate dalla frammentazione tra vita e parola non dalla frammentazione tra online e offline. Quanti rapporti fisici sono egoistici e non di prossimità, auto-centrati e non di accoglienza! La mediazione simbolica della rete non definisce la densità o la qualità delle relazioni, certo chiama in causa stimolando a maggior responsabilità una libertà e uno stile. Il comunicatore è autorevole quando la parola e la vita sono in sintonia profonda, perché il cuore si è lasciato toccare e trasformare dall’incontro. Qualcuno dice: “come mai Papa Francesco tocca il cuore delle persone?” La parola e la vita sono in sintonia! Quando la parola e la vita sono in sintonia la testimonianza è affascinante; un messaggio che non è mosso da un “dover essere…” ma da una bellezza e da una gioia grandi che non possiamo tenere per noi. Ecco perché essere cristiani è condividere! La testimonianza è parola incarnata, porta calore e bellezza su tutte le strade, anche sulle strade digitali.